Alessandra Giavazzi è una giornalista professionista che porta avanti con coraggio e determinazione la sua voce, in un mondo dove spesso le donne sono ancora considerate “presenze da inserire” piuttosto che competenze da valorizzare. Con una carriera legata al giornalismo e alla comunicazione, Alessandra ha sempre difeso l’idea che il merito non abbia genere.
La sua storia si intreccia con i temi trattati nel libro “Non chiamateci quote rosa” di Valentina Cristiani, dove le testimonianze di tante professioniste raccontano quanto sia urgente abbattere pregiudizi e stereotipi.
Nel libro “Non chiamateci quote rosa” emerge con forza il tema della discriminazione di genere nel lavoro. Quali difficoltà hai incontrato tu, come donna, nel tuo percorso professionale?
“Non ci giro intorno: il mio aspetto, per qualche stereotipato canone estetico, viene apprezzato. Attiro l’attenzione in un mondo dove il potere, nel senso di “poter fare”, è ancora soprattutto nelle mani degli uomini. Loro è lo sguardo e quindi, in apparenza, parto da un gradino più alto. Sul lavoro però l’essere piacenti può facilmente ritorcersi contro: sei lì perché sei bella, perché piaci a qualcuno di importante nella migliore delle ipotesi o perché addirittura hai una relazione con il capo. Chi ti teme, ti sminuisce. La mia risposta è sempre la stessa: “Se pensi questo probabilmente, al mio posto, sfrutteresti il tuo aspetto. Insomma: la tua accusa non dice nulla di me, ma molto di te”.
È vero, ho iniziato perché qualcuno ha scommesso su di me. Sono arrivata ruspante, fresca di laurea magistrale, con un bagaglio di studi classici, determinata, secchiona, ma effettivamente una tabula rasa. Forma mentis e passione per il giornalismo e la telecamera sono stati aspetti fondamentali per apprendere rapidamente. La vera fatica è stata rompere quel soffitto di cristallo: “Sei qui perché sei carina”. Me lo dicevano e, quando non lo dicevano, glielo leggevo negli occhi come se ce l’avessi stampato in fronte. Il primo anno di lavoro, a muso duro dietro la mia scrivania della redazione, piangevo ogni volta che la sera varcavo la porta di casa. Poi l’ho rotto quel soffitto. E ho scoperto che era solo il primo di tanti.”
C’è stata una situazione in cui hai dovuto dimostrare “il doppio” rispetto a un collega uomo per ottenere lo stesso riconoscimento? Come l’hai affrontata?
“Non so se sia il doppio, il triplo o il quadruplo… è difficile quantificarlo. Posso però dire che, conclusa la mia esperienza come dipendente in redazione, da libera professionista, nell’interfacciarmi con i committenti per le produzioni televisive o video, incontro ancora difficoltà. Non c’è quasi mai neutralità dall’altra parte: pur non essendo più inesperta, ho un aspetto giovane e poi, ovviamente, sono donna. Sono svantaggi quando qualcuno deve decidere se investire su di te. Mi sento come se in una gara di atletica fossi qualche passo dietro la linea di partenza. Devi impegnarti per dimostrare quello che dovrebbe essere scontato. Non voglio assolutamente essere vittima di questo pregiudizio, ma non mi accanisco per dover dimostrare subito tutto. Lascio che siano i fatti a parlare, con tutta la pazienza necessaria, e tanta fatica.”
Il libro non è solo denuncia, ma anche messaggio di speranza e cambiamento. Quali passi concreti pensi che le aziende o le istituzioni dovrebbero compiere per creare un ambiente davvero inclusivo?
“Per me è difficile rispondere a questa domanda, perché sono cresciuta con l’idea—o la scelta—di non dover cercare di cambiare l’ambiente, ma di cambiare me stessa.
Non significa scendere a compromessi, né limitare la propria libertà e la propria autenticità. Non c’è nulla che ci renda felici e soddisfatti, alcun lavoro, nessuna quantità di denaro, quanto poter essere se stessi. Non significa snaturarsi, ma imparare a muoversi con un po’ di astuzia.
Per esempio, faccio in modo che sia un uomo a me vicino a fare da tramite e filtro prima di presentarmi direttamente per ottenere quell’autorevolezza necessaria che serve per non essere in svantaggio già in partenza. Questo passaggio mi dà la possibilità di dimostrare poi sul lavoro che non sono lì perché sono carina o perché qualcuno mi ha fatto un favore, ma perché me lo sono meritato lavorando duramente. È la situazione ottimale? No, ma è una strategia di sopravvivenza.
In sostanza, la mia idea è adattarmi e capire come funzionano le dinamiche, piuttosto che cercare di cambiare il sistema. Sono consapevole però e ringrazio le persone che hanno fatto e continuano a fare battaglie contro le discriminazioni. Senza di loro probabilmente la mia fatica non sarebbe sufficiente. E per loro le discriminazioni sono molto diminuite. Rimangono però, inevitabilmente, nella concretezza delle gerarchie.
Rispondere a questa intervista, così come intervenire nel libro di Valentina, mi sta spronando a fare qualcosa di più.”
Che messaggio vorresti lasciare a una giovane donna che oggi sogna di intraprendere la tua stessa strada ma teme di non essere presa sul serio per il solo fatto di essere donna?
“Oggi ci sono molte più possibilità di quante ce ne fossero un tempo. Il cambio di sguardo, di pensiero e di passo c’è stato davvero. Le possibilità ci sono, ma non bisogna arrendersi a come il mondo ci vuole. Dobbiamo fare in modo che il mondo ci scelga per come siamo. Non bisogna vivere un’ingiustizia come qualcosa che schiaccia, ma come qualcosa che sprona. Non vorrei essere eccessivamente esistenzialista ma, concedetemelo: cosa siamo qui a fare se non per lottare per qualcosa di migliore? Al contrario, galleggiare tra furbizie, tentativi di non dare fastidio o sfruttare il proprio aspetto sono tattiche che possono funzionare sul breve termine, ma non vi portano da nessuna parte, se non a guardarvi allo specchio e a non piacervi senza chili di trucco. Dovete avere il coraggio di rimanere voi stesse, avere pazienza, studiare, impegnarvi, lavorare e temprare il carattere. Magari arriverete dopo qualcun altro che cavalca l’onda di un mondo ancora molto maschilista, ma quando arriverete voi… non vi sposterà più nessuno.”

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